Ho commesso un grave errore ieri.
Sono andata in studio un po’ stanca, varie cose si erano accavallate durante la giornata ma sapevo che avrei finito i colloqui non oltre le sette di sera.
Quello che non immaginavo è che a breve sarei incappata in un brutto inciampo, di quelli che non vorresti che mai accadessero.
Ma partiamo dal principio.
La seduta delle diciotto e quindici si è protratta oltre l’orario, come spesso mi accade se sono all’ultimo appuntamento e se non abbiamo ancora finito di sviscerare un argomento importare.
Uscendo dalla stanza, ho trovato una giovane donna in sala di attesa.
Le sorrido, lei mi guarda negli occhi, occhi luminosi, e ricambia il saluto.
Perdo un po’ di tempo a trafficare tra pesci e appunti e poi vado via, risalutando la giovane con un altro grande sorriso e sperando che la mia collega finisse e breve per farla entrare. Era davvero troppo tempo che attendeva lì seduta.
Mi fermo al primo semaforo sulla strada di casa e il mio telefono vibra, messaggio in arrivo!
“Dottoressa io son qui che aspetto. È in ritardo?”
Il gelo.
Quella giovane donna in sala di attesa non aspettava la collega.
Aspettava me!
Non so spiegare la sensazione che mi è calata addosso all’improvviso.
Ho dimenticato un primo appuntamento. Come ho potuto farlo accadere?
Immediatamente accosto, la richiamo, le spiego che per quanto sia odioso da ammettere ho dimenticato l’appuntamento.
Mentre parlavo ero consapevole del danno che avevo creato. Non serve un freudiano per capire che a livello di agenda una dimenticanza può accadere, ma a livello di pancia io ho“dimenticato” Lei, in quel momento sono l’ennesima persona che ha mostrato disinteresse per il Suo Dolore, il genitore che se l’è scordata all’asilo, il salvagente che non si è gonfiato.
Sono andata a casa con un vuoto nel petto e un giramento di pale che Paolo ha percepito da prima che aprissi le porte con le pizze calde che avrebbero dovuto consolarmi.
Inutile dire che anche stamani il primo pensiero è andato a Occhi Luminosi e così le ho scritto un lungo messaggio di scuse e la preghiera di accettare di essere mia ospite per il prossimo incontro, se mai vorrà ridarmi fiducia e affidare i suoi pezzi rotti a me, a me che mi perdo i miei per strada un giorno sì e l’altro pure.
Dopo averle scritto, il peso che avevo dentro di è dissolto, ho bevuto un caffè americano contemplando il mare e mi sono persa nella lettura leggera di alcuni post.
Ed ecco balzarmi agli occhi le parole del collega psicoterapeuta Alberto Pellai, stranamente attinenti ai pensieri che stavo attraversando.
“Vogliamo essere genitori perfetti ma volerti bene, figlio mio, non vuol dire che non sbaglierò mai.
Farò errori.
Non potrò evitarli.
Ma ogni volta che mi accorgerò di aver sbagliato, ti chiederò scusa. E se io genitore so accogliere i miei errori, la mia imperfezione, so chiedere scusa quando mi accorgo di non avercela fatta, darò a te un’occasione meravigliosa per capire la bellezza dell’imperfezione.
Ti insegnerò ad essere “sufficientemente buono” evitandoti l’ansia da perfezione, la falsa convinzione che per farcela nella vita si debba essere necessariamente e sempre “il numero uno”.
E’ bellissimo essere anche il numero 2, il numero 3, il numero 4.”
Già…Questa è la lezione di Winnicott, il primo a parlare di mamma sufficientemente buona come garanzia di una crescita serena.
Forse, se nessun figlio ha bisogno di un genitore perfetto, magari neanche i pazienti hanno tutto questo bisogno di perfezione.
Magari basta un terapeuta”sufficientemente buono” per far sì che si sentano accolti e protetti.
Almeno, in cuor mio, spero forte che sia così.
Il telefono vibra, è Occhi Luminosi.
“Nessun problema dottoressa, ci vediamo martedì”
In quel momento anche il mare sembra sorridere, chiudo l’agenda e inizio la mia giornata.